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SYMPOIETIC SOCIETY: UNA PRATICA COLLETTIVA

Sympoietic Society: a collective perspective and practice


Delia Mangano + Sympoietic Society
Arte e attivismo
2024


ENGLISH VERSION BELOW 

Come ormai chi ci segue saprà, il focus sull’arte e l’attivismo per YAS è sempre stato un’occasione importante per estendere l’orizzonte della pratica artistica oltre il proprio confine ed approfondire delle questioni legate ad aspetti sociali e geofisici soprattutto che stanno interessando molt3 artist3, soprattutto quell3 con una sensibilità più sviluppata sulle questioni globali ed ambientali.


Ci teniamo particolarmente a focalizzarci su progetti di artist3 emergent3 e sulle questioni riguardanti la crisi climatica e la tutela ambientale, è stata quindi una gioia per noi entrare un po’ più a fondo nel progetto di Sympoietic Society, un collettivo di artist3, curator3 e ricercator3 pan-europeo, che privilegia proprio questi aspetti.


L3 membr3 del collettivo hanno risposto alle domande poste da Delia Mangano, founder di YAS e curatrice, in seguito al desiderio di restituzione del progetto dopo un periodo di attività non-stop.


Un aspetto meritevole di ulteriore indagine è sicuramente il processo che è stato attivato per lavorare in gruppo su più livelli ed in diversi paesi europei, arrivando anche da contesti professionali diversi, considerando anche la restituzione grafico-visuale che ha interessato il team e la sua rappresentazione.


Un altro aspetto è sicuramente quello riguardante i contesti socio-politici di riferimento e dei territori in cui si sono svolte le attività, i firetalks e la cerimonia del ghiaccio ad esempio e come nascono queste attività.

Inoltre, vista la forte vocazione sociale, potrebbe esserci uno sviluppo di un modello per la gestione e la riflessione condivise in questi contesti e soprattutto per quanto emerge dalle attività proposte.


Risulta imprescindibile quindi un parallelo con la storia ed i movimenti degli anni Sessanta e Settanta che già invocavano una sensibilizzazione nei confronti della tematica ambientale, quindi vorremmo capire meglio se è un’eredità che il collettivo sente e come si rapporta con le realtà attuali simili a loro.


Sempre a proposito di riferimenti, abbiamo chiesto ulteriori dettagli su alcuni termini e sull’apparato teorico-letterario da cui ha origine la ricerca.


In quest’ottica, ci interessa capire meglio come possono coesistere e confluire le pratiche artistiche individuali ed il contribuito per il collettivo da parte dell3 artist3 present3 nel team, considerando anche il rapporto con la propria audience e chi segue il progetto/le persone a cui è rivolto.

Chi sono: Christoph Matt (AT/SE) - Cilia Naima Herrmann (DE) - Daniel Dolci (IT) - Deborah Maggiolo (IT) - Eline Gaudé-Hanses (FI/FR) - Isadora Alves (PT) - Kevin Bellò (IT/UK) - Lucrezia Costa (IT) - Nur Horsanalı (TR/NL) - Sanna Hirvonen (FI)




Lavorando a quest’intervista, delle immagini di immersione ed emersione si sono materializzate nella mia mente, o volendo anche onde e cerchi in riferimento a residenze, campi e restituzioni.
Quando ci siamo incontrat3 online per iniziare questa collaborazione sono emersi chiaramente un senso di urgenza ed il desiderio di condividere di più sul processo attivato per realizzare le vostre attività.
Considerando che i vostri background sono molto diversi, la mia domanda è: come sviluppate ed ideate la grafica e l’identità visiva che rappresentano il collettivo ed i vostri progetti allo stesso tempo?


NUR & CHRIS: L’identità visuale di Sympoietic Society esprime pluralità, una nozione importante per il nostro collettivo. La scelta del font del nostro logo, ispirato al mondo organico, è stata immediata: esprime in modo diretto il nostro spirito giocoso e sperimentale. Questi caratteri evocano anche un immaginario di esseri o germogli che emergono dal suolo, comunicando un senso di vitalità. Incorporare un senso di vitalità nel nostro logo serve anche a ricordare la continuità perpetua e la struttura ciclica dell’ecosistema.

Vogliamo dare a ognuno dei nostri progetti un’identità distintiva, concependoli come entità individuali con caratteristiche uniche. Per esempio, l’identità visuale del nostro progetto ICE * In Case of Emergency, che si concentra sulla scomparsa dei ghiacciai, rispecchia la loro precarietà, unita a sfumatura grave, che enfatizza l’urgenza del problema. Al contrario, il nostro progetto FIUMANA, centrato sull’acqua, adotta uno stile più fluido.


Mi piacerebbe saperne di più sui territori in cui organizzate le attività:
avete trovato una comunità aperta? Potete dirci di più sul contesto sociale? Come si sviluppa un FireTalk? Viene influenzato dal posto in cui avverrà? 
Parlando della Cerimonia del Ghiaccio, avevate già pensato di attribuirle un significato sacro e di rito? Se sì, avete raggiunto il vostro obiettivo?


ELINE: Le attività organizzate attraverso i tre capitoli di ICE * In Case of Emergency sono profondamente incorporate con le specificità di ognuno dei territori raggiunti, e sono guidate da una spinta a imparare e a contribuire da e con le comunità locali e gli ecosistemi.
La nostra scelta per i luoghi, a cominciare da Sideby in Finlandia, per poi passare al Parco nazionale dell’Adamello in Italia e al Rote Wand in Austria, è stata anzitutto non arbitraria. Ogni luogo è stato selezionato in base alla sua storia geologica, alla connessione con i ghiacciai e alle connessioni personali dei membri del nostro collettivo con tali siti. Lo scopo è stato quello di stabilire un contatto con le comunità locali, imparare dal territorio e introdurre pratiche adattive di cura.

Il nostro punto di partenza, Sideby, è stato cruciale nel definire la natura del nostro public program. Con la sua identità rurale e la sua connessione storica con l’Era Glaciale di Weichsel, ci ha fornito un luogo unico per la ricerca e le collaborazioni, agendo come un incubatore per esplorare potenziali attività e contesti per le prossime tappe di ICE *.

Il nostro capitolo italiano, segnato da incontri magici ed eventi climatici inaspettati, ha permesso un affondo storiografico: si è esplorato il passato del ghiacciaio Adamello e del suo parco, e il collettivo ha sperimentato il sapere e le tradizioni locali, nello specifico quelle legate al cibo e alle forme di resilienza e cura nei confronti dell’ecosistema.

In Austria siamo stati introdotti al mondo in estinzione del ghiacciaio Rote Wand dal nostro collega simpoietico Christoph Matt, il quale ha speso buona parte della sua infanzia a scalare le montagne di Voralberg e dintorni, testimoniando della costante scomparsa di questo ecosistema ghiacciato e del suo impatto sulla valle circostante. Qui abbiamo raggiunto i nostri attori locali dell’UNESCO Biosphere Park Großes Walsertal in occasione del Walserherbst Festival, che ha integrato le nostre attività nel suo programma, il quale ha lo scopo di costruire reti di cooperazione così come di nutrire relazioni già esistenti all’interno della regione.

Le Fire Talks – ne abbiamo fatte tre, una per ogni residenza – sono nate dal desiderio del collettivo di attingere dagli antichi rituali comunitari, usando il focolare come un luogo dove creare assieme. L’idea era di scambiarsi e creare nuove storie, utilizzando la forza propria del racconto nei momenti di crisi. Ogni Fire Talk è stata influenzata dalle specificità del luogo che l’ha ospitata, incorporandone il contesto storico, culturale ed ecolgico. Questi ritrovi comunitari hanno agito come un invito a collaborare giocosamente: i partecipanti contribuivano alla creazione di una nuova storia basata su termini chiave e concetti esplorati durante la fase di ricerca della residenza.

La Glacier Ceremony, dall’altra parte, ha fornito spazio e tempo per testimoniare, interiorizzare il dolore e prendere coscienza dell’imminente scomparsa del ghiacciaio Rote Wand. La cerimonia, durata un giorno intero, ha esteso i riti culturali e i significati simbolici del ghiacciaio, sfidando la percezione della Terra come materia inerte ed estendendo lo status di persone anche a entità più-che-umane. Essa si è sviluppata in due modi: da una parte un public program svolto al campo base, dove il collettivo ha curato attività volte ad armonizzarsi con la le montagne e a cucire storie di cura, e dall’altra una serie di interventi svolti sulla cima della montagna e da lì trasmessi. Ogni gesto artistico, dalla lettura di un elogio, la stesura di un velo bagnato nelle acque di Finlandia, Italia e Austria, e la dispersione delle ceneri raccolte dalle Fire Talks, sono stati attentamente inseriti nella drammaturgia della giornata. Sia come il punto culminante che come la conclusione del nostro progetto di un anno, la Glacier Ceremony è stata una forte prova emotiva per tutt3 noi. Ha toccato qualcosa di veramente atavico: la conspapevolezza, iscritta nelle ossa, della nostra esistenza interconnessa con montagne, ghiacciai, fiumi e mari – una vasta rete di esseri, luoghi ed ecosistemi, ai quali siamo tutt3 intimamente collegat3. Questo sapere incarnato, credo, ha risuonato profondamente con il nostro pubblico: persone le cui vite e mezzi di sussistenza sono strettamente legati al territorio alpino, e dunque al fato dei ghiacciai in estinzione.








 
È affascinante pensare che ci sono artist3 nel vostro collettivo che stanno lavorando sulle loro pratiche artistiche individuali e sul progetto allo stesso tempo, creando un flusso fluido e cangiante tra questi due aspetti del loro lavoro. Volete dirci di più su questa coesistenza e la sua gestione?


LUCREZIA: Il principio dei vasi comunicanti spiega molto bene la relazione tra la ricerca artistica individuale e i progetti sviluppati con il collettivo.
Da quando ho iniziato a lavorare su ICE *, ho sentito che molta delle mia ricerca individuale si stava mescolando con il movimento del collettivo. Nonostante ciò, all’inizio della nostra avventura assieme, è stato difficile trovare una comfort zone appartata, perché ho sempre lavorato da sola come artista visuale. Poi, ho iniziato a capire che lo scambio tra di noi mi ha arricchito sia come persona che come artista. Abbiamo le nostre differenze, ovviamente.

Da una parte ho dovuto confrontarmi con me stessa poiché avevo bisogni e necessità che si traducevano nel mio lavoro con l’uso di certi materiali adatti a me, per esempio, il ferro e il bronzo. Dall’altra parte, ho dovuto adattarmi alle necessità e ai desideri del  collettivo e delle comunità con cui abbiamo lavorato. Tuttavia, pratiche individuali e collettive sono molte vicine a livello di urgenza e necessità che esprimono, rispondendo a bisogni diversi ma vicini.


Parliamo adesso delle scelte lessicali che avete operato: interlocale, simbiosi, more-than-human communities, simpoietico, cura tra territori e specie, intervento. Abbiamo trovato molto interessanti ed ispiranti questi termini e ci piacerebbe capire meglio i riferimenti culturali e letterari da cui derivano e la loro importanza per il progetto.



SANNA: Queste parole hanno iniziato a comparire sin dall’inizio del progetto, e molt3 di noi, se non tutt3, avevano già lavorato con queste idee e concetti precedentemente. Vorrei dire che essi si connettono profondamente a come noi vediamo il mondo in quanto a collettivo e a quali realtà sentiamo di fare parte. Per esempio, l’interlocalità è qualcosa di intrinsecamente parte del nostro lavoro poiché veniamo da diversi luoghi dentro e oltre l’Europa, ma anche per il livello a cui vogliamo lavorare. Il nostro lavoro è allo stesso tempo locale e site-specific – penso al Rote Wand, l’Adamello e a Sideby – ma connette e unisce assieme questi luoghi differenti, costruendo ponti e storie, come se ci potessimo sedere attorno a questo stesso focolare in diverse parti del mondo.

Simpoiesi, una parola originariamente introdotta da Beth Dempster e resa popolare da Donna Haraway, è diventata parte del nostro vocabolario molto presto: fare-con il più-che-umano, mondo interlocale, è qualcosa che è al cuore delle nostre pratiche. Siamo un collettivo di dieci persone provenienti da diversi background e discipline, quindi questo progetto è, in sé, simpoietico. Non potrebbe mai essere stato realizzato senza questo progetto di creare e divenire assieme. La simpoiesi fornisce una lente attraverso la quale guardare un mondo dove nulla nasce o rimane in vita in isolamento. Per me, questo si riflette nell’idea di esseri umani che sono parte di ecologie più-che-umane senza le quali non potremmo continuare a vivere. Siamo tutti parte del tessuto degli ecosistemi locali e interlocali, e questo è qualcosa che vogliamo portare avanti in ICE *.

DEBORAH: Per noi, curare il linguaggio che usiamo è di fondamentale importanza; infatti, è anche attraverso il linguaggio che costruiamo l'orizzonte etico che informa il nostro percorso culturale e il nostro attivismo artistico. Tuttavia, abbiamo la responsabilità di comprendere fino in fondo quanto sia vera l'equazione parole = mondi; perché il linguaggio è certamente importante, ma la materia, invece, sembra aver perso oggi tutta la sua rilevanza - come sostiene la fisica quantistica femminista Karen Barad.

Per questo crediamo che una certa critica culturale, che comunque guida il nostro lavoro, debba necessariamente incarnarsi in una pratica artistica per non rimanere elitaria e sterile.

La materia deve "arrivare a contare" - per riprendere Barad. Parafrasando l'antropologa sociale britannica Marilyn Strathern, sentiamo quindi l'urgenza di sottolineare che "è importante capire quali pensieri pensano altri pensieri [...] quali relazioni mettono in relazione altre relazioni. È importante capire quali storie raccontano altre storie". (Donna Haraway, Chthulucene, p. 63).

Questo ha a che fare con la responsabilità che ci assumiamo, come gruppo, nel creare e sostenere certe configurazioni di realtà rispetto ad altre, dal momento che la nostra sperimentazione artistica muove dalla riflessione rispetto a quale presente alternativo e a quale futuro possibile vogliamo abitare - dunque, che tipo di visione del mondo questi portano alla ribalta e, ancora, a quale tipo di materia (o materie) diamo rilevanza e permettiamo di manifestarsi e svilupparsi; quali storie aiutiamo a tessere e diffondere attraverso le nostre azioni.

Vogliamo che il nostro glossario diventi uno strumento critico e in evoluzione per pensare insieme, dal carattere provvisorio, sempre pronto ad arricchirsi di nuovi suggerimenti e prospettive e aperto alle comunità con cui ci confronteremo di volta in volta, lasciandosi contaminare sia dai nostri studi critici sia dagli incontri e dalle storie che intrecceremo a venire. Un vero e proprio lavoro di composizione creativa, di simpoiesi, appunto.

Per noi il pensare-con e il fare-con avvengono a partire da questo primo orientamento teorico, per poi sfociare in una collaborazione tra noi membri del collettivo in primis e quindi aprirsi agli agenti successivi con cui ci interfacciamo nei nostri progetti - siano essi umani o meno. Attraverso il nostro lavoro, cerchiamo di scardinare una visione antropocentrica del mondo per sensibilizzare l'opinione pubblica sulla crisi climatica, proponendo attivamente alternative possibili capaci di abbracciare orizzonti etici differenti, per una prosperità planetaria basata non più sulla competizione ma sulla collaborazione, come insegna la biologa Lynn Margulis, per la quale le relazioni simbiotiche tra organismi di regni diversi sono il vero motore dell'evoluzione.





Vi sentite responsabil3 per e nei confronti della vostra audience? Considerando che i temi centrali per la vostra pratica sono al centro del dibattito attualmente, quanto è importante per voi raggiungere una vasta audience? Trovate sia un aspetto importante oppure no?


KEVIN: La nostra pratica mira a unire due aspetti essenziali, due facce della stessa moneta. Mentre, da una parte, è importante riflettere criticamente sulle cause e sugli effetti della crisi climatica attuale, dall’altra ci concentriamo sulla co-creazione e la coesistenza radicale per affrontare queste problematiche, così da incorporarle con delle politiche della cura, del gioco e della sperimentazione. Dopo tutto, con il nostro nome, proviamo a incarnare la simpoiesi come una chiamata alla cooperazione e alla coabitazione. Come risultato, pensiamo sia cruciale coinvolgere le comunità locali, sia che siano di animali umani che di esseri più-che-umani.

L’approccio “site-intensive” che abbiamo adottato con ICE * e FIUMANA non ha necessariamente un solo pubblico. Ci sono gruppi minori di partecipanti e volontari che sperimentano di persona, un’audience più estesa che è coinvolta attraverso la nostra documentazione online, e altre specie che influenzano il nostro lavoro tramite i principi del mutualismo. Di certo, creiamo i nostri progetti per e con loro, così che ogni idea sia esplicitamente sviluppata per il suo contesto, i suoi partecipanti, il suo ecosistema e la sua stagione.


Analizzando il progetto dal punto di vista esterno trovo moltissime connessioni con la politica ed il potenziale inespresso di questa tipologia di potere, anche se la parte più interessante delle attività del collettivo penso sia quella sociale, in più state generando moltissimi contenuti, memorie condivise e consapevolezza significativa. Mi chiedo quindi se si stia configurando un modello a cui riferirsi su come guardare all’arte o per ispirare chi fa politica. 

È così? Se sì è intenzionale? Mi chiedo e vi chiedo anche come utilizzare questi preziosi materiali e come averne cura?



NUR: Fino ad adesso, le nostre attività non hanno abbracciato apertamente un programma politico. Tuttavia siamo profondamente consapevoli che la crisi climatica è intrinsecamente politica, intricatamente legata alle dinamiche di potere formate dai sistemi capitalista e patriarcale, e segnata da una forte sproporzione dell’impatto della crisi su coloro che contribuiscono ad essa rispetto a su chi la subisce.
Finora ci siamo concentrati più sulla dimensione sociale e gli sforzi comunitari, poiché crediamo che affrontare le crisi ecologiche inizi con il riconoscimento della nostra interconnessione con il mondo più-che-umano. Questo comporta riconoscere la nostra esistenza all’interno di una rete di relazioni umane e più-che-umane che alimentano la vita sulla Terra.

L’enfasi è sull’ascolto collettivo, la condivisione e l’immaginazione. Vediamo le nostre attività come un modello per contrastare il negazionismo del cambiamento climatico e potenziare una modalità di discussione accessibile alle emergenze della contemporaneità. Questo modello è adattabile ad altri luoghi e può guidare iniziative simili alla nostra. Riconosciamo anche la necessità di abbracciare la multidisciplinarietà per attivare una trasformazione sistematica. Stiamo provando  a unire i regni di arte, scienza, cultura e ecologia attraverso un terreno comune. L’inclusione di politici e legislatori in questo spazio condiviso è un passo successivo cruciale.


DANIEL: Definendoci un collettivo artistico, proponiamo irrimediabilmente una prospettiva sull'arte. In linea con tante altre persone e pratiche a noi affini – non per forza legate al mondo dell'arte – portiamo avanti azioni dove la parola "arte" è totalmente slegata dalla parola "oggetto", e poi dalla parola " merce". Certo di oggetti ne abbiamo prodotti, ma essi sono tracce, o catalizzatori, delle nostre attività. Il vero soggetto, nonché la componente politica, è, all'interno di ciò che facciamo, ciò che succede nell'incontrarsi. Trovare modi per incontrarsi, definirei forse così, la nostra attitudine politica. Incontrarsi con una storia, con una camminata; incontrarsi versando lacrime; Incontrare non solo l'umano, ma anche il più-che-umano. Trovare modi per colmare quella distanza contingente e immanente fra me e l'altro, che al di là di una concettualizzazione filosofica è anzitutto un problema sociale e ambientale; ed è urgente. Siamo un collettivo artistico perché l'arte – più diplomaticamente la creatività – è il nostro mezzo di elezione per esprimere questo.


Pensando al collettivo da un punto di vista storico potremmo vedere un fil rouge tra l’attivismo moderno ed i movimenti controculturali degli anni Sessanta e Settanta ed ICE*. Ne siete dunque stat3 ispirat3? Come considerate il progetto in relazione agli altri interventi/progetti/collettivi che is focalizzano su argomenti simili se non uguali ai vostri ma che provengono da aree diverse (es. media, movimenti politici o d’inchiesta come Extinction Rebellion)? Percepite delle connessioni?


ELINE: Da una prospettiva storica, c’è certamente un riconoscimento dell’eredità e della continuità tra il moderno attivismo climatico e i primi movimenti di controcultura. L’enfasi è sulla consapevolezza ambientale, il coinvolgimento comunitario e la rivalutazione delle relazioni all’interno di una più vasta rete ecologica a esse contigua.

Riconosciamo e abbracciamo questo filo conduttore, comprendendo che il nostro lavoro è parte di una narrativa più ampia che si è evoluta nel tempo, un riconoscimento che emerge attraverso il nostro impegno per la collaborazione interdisciplinare e un senso di affinità con i primi movimenti. Di certo, Sympoietic Society non esiste come unità isolata; piuttosto, è un prodotto del suo tempo, influenzato dalla conoscenza collettiva e dalle esperienze di tutti coloro che hanno difeso i valori della consapevolezza ambientale e della sostenibilità nel passato.

In termini di movimenti contemporanei, ci sentiamo parecchio solidali nei confronti di iniziative come Extinction Rebellion e Ende Gelände, per nominarne un paio. La nostra enfasi nella collaborazione con le comunità locali, incluse quelle più che umane, riflette una più larga spinta verso una svolta ecologica nella nostra società, e la realizzazione che noi siamo parte di uno sforzo collettivo per aumentare la consapevolezze e contribuire in modo significativo a evidenziare le sfide che stiamo affrontando. Mentre le iniziative appena citate hanno i loro approcci specifici, il nostro coinvolgimento con le arti è una scelta deliberata per mobilitare l’espressione creativa quale strumento per potenziare la sostenibilità ambientale.

Crediamo che l’arte abbia il potere di ispirare il cambiamento ed evocare emozioni che trascendano le tradizionali forme di comunicazione. Il nostro collettivo di artisti, performer, designer e curatori mira ad avere un ruolo in questa più vasta svolta ecologica, mobilitando le arti per contribuire a una società più sostenibile e consapevole, riconoscendo che il cambiamento non è solo necessario, ma imminente.

W: https://incaseofemergency.earth/


ENGLISH VERSION


As those who follow us will know by now, the focus on art and activism for YAS has always been an important opportunity to extend the horizon of artistic practice beyond its borders and deepen the issues related to social and geophysical aspects especially that are affecting many artists, especially those with a more developed sensitivity to global and environmental issues.

We particularly want to focus on projects of emerging artists and on issues related to the climate crisis and environmental protection, it was therefore a joy for us to get a little deeper into the project of Sympoietic Society, a collective of artists, Pan-European curators and researchers, which focuses precisely on these aspects.

The members of the collective answered the questions asked by Delia Mangano, founder of YAS and curator, following the desire to return the project after a period of non-stop activity.

One aspect worthy of further investigation is certainly the process that has been activated to work in groups on several levels and in different European countries, also coming from different professional contexts, also considering the graphic-renderingvisual that interested the team and its representation.

Another aspect is certainly that concerning the socio-political contexts of reference and the territories in which the activities, the firetalks and the ice ceremony for example and how these activities are born.
Moreover, given the strong social vocation, there could be a development of a model for shared management and reflection in these contexts and especially for what emerges from the proposed activities.

It is essential therefore a parallel with the history and movements of the sixties and seventies that already called for an awareness of environmental issues, so we would like to better understand if it is a legacy that the collective feels and how it relates to current realities similar to them.

Also about references, we asked for further details on some terms and on the theoretical-literary apparatus from which the research originates.

In this perspective, we are interested in better understanding how individual artistic practices can coexist and merge with the contribution to the collective by the artists presented in the team, considering also the relationship with its audience and those who follow the project/ the people to whom it is addressed.

They are: Christoph Matt (AT/SE) - Cilia Naima Herrmann (DE) - Daniel Dolci (IT) - Deborah Maggiolo (IT) - Eline Gaudé-Hanses (FI/FR) - Isadora Alves (PT) - Kevin Bellò (IT/UK) - Lucrezia Costa (IT) - Nur Horsanalı (TR/NL) - Sanna Hirvonen (FI)




Working on this interview, images of immersion and an emergence materialized in my mind, or waves and cycles referring to residences, campuses, and restitutions. When we met online to start this collaboration, a sense of urgency surfaced during our call and it was the desire to share more about the process activated to realize your activities. Considering your different backgrounds, my question is: how did you develop and design the graphic and visual identity to represent you and the project at the same time?



NUR & CHRIS: The visual identity of Sympoietic Society expresses plurality, an important notion for our collective. We were immediately drawn to the organic characters within our logo’s typeface, showing our experimental and playful spirit. These letters also evoke imagery of beings or sprouts emerging from the soil, resonating with a sense of vitality. The incorporation of a circular text in our logo serves as a nod to the perpetual continuity and cycles inherent in nature.

We want to give each of our projects a distinctive identity, viewing them as individual entities with unique characters. For example, the visual identity of our project ICE * In Case of Emergency, which focuses on the disappearance of glaciers, mirrors the brittleness of ice, merged with a serious tone emphasizing the gravity of the issue. In contrast, our project FIUMANA, centered around waters, adopts more fluid characters.

I’d like to know more about the territories in which you have organized your activities, for instance have you found an open community? Could you tell us more about the social context? How does a FireTalk develop? Is it influenced by the place in which it will take place? And talking about the Glacier Ceremony, did you plan for it to have a sacral and ritual meaning? If yes, have you achieved your goal?


ELINE: The activities organized throughout the three chapters of ICE * In Case of Emergency were deeply embedded in the specificities of each territory and driven by a commitment to learn from and contribute to the local communities and ecosystems. Our choice of locations, beginning with Sideby in Finland, Parco dell’Adamello in Italy, and Rote Wand in Austria, was therefore not arbitrary. Each locality was selected based on its geological history, connection to glaciers, and personal relationships of the collective members to the site. The aim was to establish a connection with the local communities, learn from the land, and introduce adaptive practices of care.

Our starting point, Sideby, was crucial in influencing the nature of our public program. With its rural identity and historical connection to the Weichselian Glaciation (also known as the Last Glacial Period (LGP), or Last Ice Age, i.e. the last glacial period in northern parts of Europe), it provided us with a unique setting for research and collaboration, acting as an incubator to explore potential activities and frameworks for the upcoming iterations of ICE *. Our Italian chapter, marked by magical encounters and unexpected climatic events, added a layer of historical depth to the project. Exploring the history of the Adamello glacier and the area, the collective engaged with local indigenous knowledge and traditions, particularly regarding food practices as a form of ecological resilience and care. In Austria, we were introduced to the vanishing world of the Rote Wand glacier by our fellow sympoietic Christoph Matt, who spent the better part of his childhood climbing the mountains of Voralberg and beyond, witnessing the steady disappearance of this frozen ecosystem and its impact on the neighboring valley. There, we reached out to local actors from the UNESCO Biosphere Park Großes Walsertal to the Walserherbst Festival, which integrated our activities into its program, setting out to establish networks of cooperation as well as to nurture pre-existing relationships within the region.

Fire Talks – of which there were three, one for each residency – originated from the collective’s desire to tap into ancient communal and communing rituals, using the fireplace as a site for shared creation. The idea was to exchange and create new stories, drawing on the power of storytelling in times of crisis. Each Fire Talk was influenced by the specificities of the land that hosted it, incorporating historical, cultural, and ecological contexts. These communal gatherings acted as an invitation to playful collaboration, with participants contributing to the creation of a new story based on key terms and concepts explored during the research phase of the residency.

The Glacier Ceremony, on the other hand, provided us with a time and space to witness, grieve, and care for the imminent disappearance of the Rote Wand glacier. The day-long ceremony extended cultural rites and symbolic meanings to the glacier, challenging the perception of Earth as inert and extending personhood to more-than-human entities. It involved a public program of curated activities, such as harmonizing with the mountains and stitching stories of care, as well as a series of interventions transmitted from the mountain summit. Each artistic gesture, from the reading of a eulogy, the spreading of a cloth bathed in waters from Finland, Italy, and Austria, and the scattering of ashes from Fire Talks, was carefully integrated into the dramaturgy of the day. As both the culminating point and conclusion of our year-long project, the Glacier Ceremony proved very emotional for all of us. It touched upon something very primal: the bone-deep knowing of our intertwined existence with mountains, glaciers, rivers, and seas – wider networks of beings, places, and ecosystems, to which we are all intimately connected. This embodied knowledge, I believe, resonated deeply with our attending public: people whose lives and livelihoods are intricately tied to the alpine territory, and therefore to the fate of its extinguishing glaciers.










It’s fascinating to think that there are artists in your collective working on their individual practices and on the project at the same time, creating a fluid and shifting flow between these two facets of their work. Do you want to share more about this coexistence?


LUCREZIA: The communicating vessels principle explains very well the relation between the individual artistic research and the projects’ development with the collective. Since I started working on the ICE * project, I have felt that much of my individual research was merging with the movement of the collective. Nevertheless, at the beginning of our journey together, it was difficult to put my comfort zone aside because I always worked alone as a visual artist, but then I began to understand that the exchange among us enriched me as a person and an artist.  We have our differences, of course. On one hand, I have to confront myself as I have needs and necessities that are translated into works with the use of certain materials suitable for me, for example, iron and bronze. On the other hand, I have to adapt to the needs and wants of the collective and the communities we work with. However, individual and collective practices are very near in terms of inherent urgency and necessity, and they respond to different but adjacent needs.


Let’s talk about the lexical choices you made: interlocal, symbiosis, more-than-human communities, sympoietic, care between territories and species, intervention. We’ve found them very interesting and we’d like to better understand their cultural and literary references and their importance for the project.


SANNA: These words kept popping up during the initial phase of the project, and many, if not all of us, had already been working with these concepts and ideas. I would like to say that they connect deeply to how we see the world as a collective and what realities we feel we are part of. For example, interlocality is something that is inherently part of our work because we come from many different locations around and beyond Europe, but also on the level of how we want to work. Our work is at the same time local and site-specific – thinking about Rote Wand, Adamello, Sideby – but connecting and drawing together these different locations, building bridges and storylines, almost as if we were all sitting around the same big campfire in all these different parts of the world.

Sympoiesis, a word first introduced by Beth Dempster and made popular by Donna Haraway, became part of our vocabulary very early on as well: making-with the more-than-human, interlocal world, is something that is at the heart of our practices. We are a collective of ten people hailing from different backgrounds and disciplines, so this project is, in itself, sympoietic. It could not have been done without this process of creating and becoming together. Sympoiesis provides a lens through which we look at the world where nothing is created or stays alive in isolation. To me, this is reflected in the idea of humans being part of the more-than-human ecologies without which we cannot keep on living. We are all part of the fabric of the local and interlocal ecosystems, and this is something that we want to bring forth in ICE *.


DEBORAH: For us, curating the language we use is of fundamental importance; indeed, it is also through language that we construct the ethical horizon that informs our cultural journey and artistic activism. However, we have a responsibility to fully understand how true the equation words = worlds is; because language certainly matters, but matter, on the other hand, seems to have lost all its relevance today – as argued by feminist quantum physicist Karen Barad.

This is why we believe that a certain cultural criticism, which in any case guides our work, must necessarily be embodied in an artistic practice if it is not to remain elitist and barren.

Matter must “come to matter” – to borrow again from Barad. To paraphrase British social anthropologist Marilyn Strathern, we thus feel the urge to underline that “It matters  what thoughts think thoughts  [...] what worlds make worlds, what worlds make stories”. (Donna Haraway, Staying With The Trouble, p. 12).

This has to do with the responsibility we take on, as a group, in creating and sustaining certain wor(l)d configurations over others, since our artistic experimentation revolves around the reflection on what alternative present and possible future we want to inhabit – what kind of worldview this brings to the fore, and, again, what kind of matter(s) we give relevance to and allow to unfold and foster; what stories we help weave and spread through our actions.

We want our glossary to become a critical and evolving tool for thinking together, its provisional character always ready to be enriched by new suggestions and perspectives, open to the communities with whom we will engage from time to time, allowing it to be contaminated by both our critical studies and by the encounters and stories we will weave to come. A real work of creative composition, of sympoiesis, in fact.

For us, thinking-with and making-with take place from this first theoretical orientation and then result in a collaboration between us members of the collective and then open to the next agents with whom we will interface – whether they are human or not. Through our work, we try to unhinge an anthropocentric vision of the world to raise awareness of the climate crisis and actively propose possible alternatives capable of embracing different ethical horizons, for a planetary thriving based no longer on competition but on collaboration, as biologist Lynn Margulis teaches, for whom symbiotic relationships between organisms of different kingdoms are the real driving force of evolution.




Do you feel responsible for and in regards to your audience? Considering that the themes central to your practice are so prevalent today, how important is it for you to reach a wide audience? Is this something you are considering at all?


KEVIN: Our practice aims to keep together two essential aspects, two sides of the same coin. While, on the one hand, it is important to critically reflect on the causes and effects of the current climate crisis, on the other, we focus on co-creation and radical togetherness to cope with these issues and incorporate politics of care, play, and experimentation. After all, with our name, we try to embody sympoiesis as a call for cooperation and cohabitation.

As a result, we find it crucial to engage with local communities, whether they are of human animals or more-than-humans. The site-sensitive approach we have adopted with ICE * and FIUMANA doesn't necessarily have “one audience”. There are smaller groups of participants and volunteers that experiment in a physical space, a larger audience that engages in our documentation online, and other species that influence our work via principles of mutualism. Of course, we create our projects for and with them, so any idea we had was explicitly developed for its context, its participants, its ecosystem, and its season.


Trying to analyze your project through an external eye I find a lot of connections with politics and the unexpressed potential of this kind of power but I think the most interesting part of your activities is the social one, plus you are generating a lot of content, shared memories and meaningful awareness so is this a suggestion of a model to look at or to start with for politicians? Is it intentional? How to use this precious "material" and take care of it?


NUR: Until now, our activities have not overtly embraced a strong political agenda. But we are deeply aware that environmental crises are inherently political, intricately tied to power dynamics shaped by patriarchal and capitalist systems, and marked by disproportionate impacts between those who contribute to climate issues and those affected.

So far we focused more on the social dimension and community-based efforts, as we believe that addressing ecological crises begins with recognizing our interconnectedness with the non-human world. This involves acknowledging our existence within networks of human and non-human relationships that sustain life on Earth. Our emphasis is on collective listening, sharing, and imagining. We see our public activities as a model for countering climate change denial and fostering accessible discussions on current emergencies. This model is adaptable to other regions and can guide initiatives similar to ours. We also recognize the necessity of transcending disciplinary boundaries for a systemic transformation. We try to unite the realms of art, science, culture, and ecology on common ground. Inclusion of politicians and policy-makers in this shared space is a crucial next step.


DANIEL: By defining ourselves as an artistic collective, we irremediably propose a perspective on art. In line with many other people and practices similar to us – but not necessarily linked to the world of art – we carry out actions where the word "art" is totally disconnected from the word "object", and then from the word "commodity". We have certainly produced objects, but they are traces, or catalysts, of our activities.

The true subject, as well as the political component, is, within what we do, what happens when we meet the other. Finding ways to meet, I would perhaps define our political attitude in this way. Meeting with a story, with a walk; meeting while shedding tears; meeting not only the human but also the more-than-human. Finding ways to bridge that contingent and immanent distance between me and the other, which beyond a philosophical conceptualization is first and foremost a social and environmental problem; and it is urgent. We are an artistic collective because art – more diplomatically creativity – is our chosen means of expressing this.


Thinking about Sympoietic Society from a historical point of view, we could see a fil rouge between modern activism and countercultural movements from the 60’s and 70’s and ICE*. Have you been inspired by them? And how do you see your project in relation to other interventions focusing on the same or similar topics but coming from different areas (e.g. media, journalism or political movements like Extinction Rebellion)? Do you sense a connection there?


ELINE: From a historical perspective, there’s certainly a conscious acknowledgment of the legacy and continuity between modern environmental activism and earlier counterculture movements. The emphasis on environmental awareness, community engagement, and a reevaluation of our relationship with wider ecological networks represents a thread of continuity. We recognize and embrace this common thread, understanding that our work is part of a larger narrative that has evolved over time, a recognition that surfaces through our commitment to transdisciplinary cross-collaboration and a sense of kinship with grassroots movements. Of course, Sympoietic Society doesn’t exist in isolation; rather, it is a product of its time, influenced by the collective knowledge and experiences of those who have advocated for environmental consciousness and sustainability in the past.

In terms of contemporary movements, we do feel solidarity with initiatives such as Extinction Rebellion and Ende Gelände, to name only a few. Our emphasis on collaboration with local communities, including more-than-humans, reflects a broader push towards an ecological turn in our societies, and the realization that we are part of a collective effort to raise awareness and contribute meaningfully to addressing the challenges we face. While the aforementioned initiatives have their unique approaches, our own engagement with the arts is a deliberate choice to mobilize creative expression as a means to foster environmental sustainability. We believe that art has the power to inspire change and evoke emotions that transcend traditional forms of communication. Our collective of artists, performers, designers, and curators aims to play a role in this wider ecological turn, mobilizing the arts to contribute to a more sustainable and aware society, recognizing that change is not only necessary but imminent.

W: https://incaseofemergency.earth/






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